"Sono solo un uomo, in uno stupido mantello rosso, alla ricerca di criptonite, lungo questa strada a senso unico". Queste le parole di Superman (It's not easy), singolo dei Five For Fighting che nel 2000 riscosse un successo planetario.
Versi amari, introspettivi, a cui era affidata la riflessione di un Superman esausto, depresso, incline al suicidio, disposto a cercare la criptonite pur di porre fine al ruolo che la vita lo ha costretto a recitare. Un Superman combattuto, in bilico fra enormi responsabilità e la voglia di una vita normale, un uomo che concludeva pensando "gli uomini non sono stati creati per correre con le nuvole fra le ginocchia". Un testo che diviene metafora sottilissima, di una qualità indefinibile.
Perchè questa premessa? Semplice. L'artista che oggi Next vi presenta lega il suo lavoro, L'Hospice, allo stesso tenore di riflessioni. Soltanto amplificando all'ennesima potenza gli
aspetti peggiori della lettura introspettiva sopra presentata.
Perchè questa premessa? Semplice. L'artista che oggi Next vi presenta lega il suo lavoro, L'Hospice, allo stesso tenore di riflessioni. Soltanto amplificando all'ennesima potenza gli
aspetti peggiori della lettura introspettiva sopra presentata.
Gilles Barbier nasce 46 anni fa nella Repubblica di Vanuatu, un piccolo staterello insulare immerso nell'Oceano Pacifico, vicino alle coste dell'Australia. A soli vent'anni si trasferisce in Francia, dove tutt'ora risiede
e dove qualche anno fa ha dato vita a L'Hospice, una delle sue creazioni di maggior successo.
e dove qualche anno fa ha dato vita a L'Hospice, una delle sue creazioni di maggior successo.
Smontare un mito, un'impresa che solo all'artista o talvolta ai secoli di storia è permessa. Questo è quello che Barbier in effetti fa nel suo ospizio, un ospizio popolato da supereroi decrepiti, invecchiati fino all'inverosimile, storpiati dalla vita e dall'artrosi, fiaccati nell'animo e nel fisico. Un ospizio spoglio, tinteggiato da pareti asetticamente bianche, immacolate, come bianchi fogli di carta a cui la vita affida le ultime parole da scrivere prima della dipartita.
Un televisore vecchio modello con antenna mobile troneggia sovrano sopra ad uno squallido comò di seconda mano. Intorno ad esso ruota la triste parata immobile, un requiem silenzioso echeggia nel nostro animo. Superman, inebetito e con lo scalpo imbiancato guarda altrove, pensieroso, l'abito è quello di un tempo, ai piedi delle pantofole. Stringe il girello di metallo che lo aiuta a mantenersi eretto, forse pensa che avrebbe fatto bene a cercare la criptonite ed a farla finita quando era in grado.
Davanti a lui un Hulk paralitico e quasi calvo sonnecchia mite, accanto Cat Woman dorme della grossa, i riflessi felini di un tempo sono affidati alle molle di un poltrona che ha il colore della malinconia.
Wonder Woman sorveglia, o forse si appoggia instabile ad un lettino dove giace in stato semivegetativo un Capitan America ingrassato, imbolsito, incosciente. Una flebo come ultimo legame con la vita terrena, accanto i colleghi di una vita. I seni scesi di Wonder Woman puntano verso il suolo che attende immobile ed impassibile la caduta degli ultimi eroi che la circondano.
La scena si conclude con l'ultimo dei Fantastici Quattro, l'uomo allungabile, Mr. Fantastic, che smollato siede ad un tavolino bianco, forse il più cosciente di tutti, legge un libro, ha l'occhio sbarrato, frammenti di vita passano sulle rotaie della sua mente, velate di cataratta, vorrebbe piangere ma non ha la forza, ormai non c'è più tempo.
La scena è macabra, ironica e grottescamente di una tristezza infinita. Sorridiamo mentre ci interroghiamo sul significato di ciò che stiamo guardando. Una provocazione per dimostrare che il mito del Superuomo ha fallito? Un ammiccamento sagace verso gli assidui appassionati della Marvel? Un semplice e furtivo paradosso? Niente di tutto questo.
La scena è macabra, ironica e grottescamente di una tristezza infinita. Sorridiamo mentre ci interroghiamo sul significato di ciò che stiamo guardando. Una provocazione per dimostrare che il mito del Superuomo ha fallito? Un ammiccamento sagace verso gli assidui appassionati della Marvel? Un semplice e furtivo paradosso? Niente di tutto questo.
Dietro quegli abiti, quelle facce ormai irriconoscibili ci siamo noi, esseri umani figli di una società che ha mandato in pensione l'uomo medio, l'anziano, colui che ha vissuto.
Colui che per una vita ha cavalcato moto, guidato auto, ha assistito al lutto dei propri parenti, genitori ed amici, ha ascoltato musica, forse l'ha suonata, forse qualche volta ha fatto qualche buona azione, forse è stato egoisticamente malvagio, ha fatto sesso, si è innamorato, ha sofferto il dolore che rompe il cuore a metà, ha sconfitto malattie e nemici sul lavoro, sulla strada, ha visto luoghi meravigliosi che forse non ha mai narrato a persona vivente, ha fatto questo ed altro ma comunque ha sempre affrontato la quotidianità.
E' lui l'Eroe di Ogni Giorno. Siamo noi. Siamo noi che regaliamo ai fumetti ed ai miti della carta stampata una vita eterna, scordandoci che per esistere è richiesta una dose di coraggio molto maggiore di quella che riponiamo nei feticci della Marvel o nella narrattiva sensazionalistica dei manga. Dietro quegli abiti, in quell'ospizio ci siamo noi che scriviamo e voi che leggete, ci siamo tutti e due, dopo aver percorso il viale della vita, mentre ci avviamo verso il tramonto.
Ci siamo noi abbandonati e soli: è l'immagine di come non vorremmo finire. L'uomo è l'unico essere vivente che ha la consapevolezza della propria morte, il problema non è la morte, è il modo che può essere molto più spaventoso della fine stessa. Finire sì, ma non finire così. Gilles Barbier ci aiuta a riflettere, se i protagonisti di questa scena non avessero indossato i loro costumi, non vi avremmo riposto così tanta attenzione. Touchè.
Claudio Capanni
(claudiocapanni@aol.com)
Claudio Capanni
(claudiocapanni@aol.com)
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